Nelle leggende non è raro incontrare dei personaggi, nati forse nella storia e poi amplificati dalla letteratura, che risultano assorbiti dal patrimonio leggendario locale, al punto di apparire rivestiti di sfumature diverse, originali, in linea con quelle che sono le caratteristiche di una specifica regione, tipiche della tradizione di quella area geografica.
La “pera” d’Ruland
In questo contesto si colloca anche una vicenda molto celebre, pervenutaci attraverso canali eterogenei: la follia di Orlando che, pazzo d’amore, perse le staffe distruggendo ogni cosa.
… né più indugiò che trasse il brando fuore.
Tagliò lo scritto e il sasso, e sino al cielo
A volo alzar fe’ le minute schegge.
Infelice quell’antro, ed ogni stelo
In cui Medoro e angelica si legge…
Così nel suo Orlando Furioso Ludovico Ariosto ha voluto tramandarci l’ira del paladino prediletto di Carlo Magno che, impazzito per il rifiuto di Angelica che gli aveva preferito il bel Medoro, distrusse con la magica Durlindana ogni albero o pietra in cui la donna e il suo amante avevano inciso i loro nomi. Quando scoprì che ogni speranza era vana, perse la ragione e sfogò la sua ira anche contro i grandi massi. Un’ira che pare proprio abbia attraversato anche la Valle di Susa.
Narra infatti la leggenda che la grande roccia spaccata dal paladino con la complicità dell’indistruttibile spada sia un singolare masso, neanche tanto grosso, adagiato in un prato nei pressi della “Cascina Roland”. La pietra giunse nell’area in cui molti millleni dopo sarebbe sorta la cascina, seguendo i movimenti delle glaciazioni. Come per altri massi erratici della valle, i geologi tendono ad individuare nel Masso di orlando un residuo della Glaciazione di Mindel, spaccato già in quel lontano periodo o comunque in epoche anteriori alla comparsa dell’uomo in questo spicchio di pei monte.
I briganti del Malpasso
I briganti ! Personaggi di fiaba per una realtà storica vissuta e sofferta. Povertà e fame, ingiustizia e sopruso furono le cause che determinarono il sorgere del brigantaggio, fenomeno che si diffuse più o meno intensamente un po’ dovunque e quindi anche in Valle di Susa. Ancora oggi, qua e là, parecchi toponimi ci rammentano la presenza dei Briganti; la tradizione popolare ce ne tramuta le gesta.
Abbiamo sentito raccontare di imprese brigantesche alla “Perosa” di Rivoli a al “Malpasso”, località quest’ultima al confine tra il comune di Villar Focchiardo e quello di San Giorio.
Qui al Malpasso, l’allora “Strada di Francia” era stretta, come in una morsa, tra la montagna ed il fiume. Un passaggio obbligato dove le diligenze divenivano facile preda dei Briganti che scendevano all’assalto protetti dalla boscaglia e dai numerosi anfratti segreti.
I Briganti ! Uomini misteriosi che agivano il più delle volte nell’anonimato; quasi una società segreta il cui scopo era quello di portare più giustizia e più uguaglianza fra le classi sociali. Non sempre però le azioni di questi uomini leggendari si limitavano al rispetto delle loro intenzioni. A volte essi eccedevano nel loro zelo, in qualche occasione, spinti forse dalla paura di un ipotetico riconoscimento oppure da una inattesa resistenza, diventavano, loro malgrado anche assassini. E’ proprio il caso dei Briganti del Malpasso. Si diceva che i briganti erano organizzati fino al punto di avere connivenza con gli inservienti della locanda della Giaconera e con gli addetti del servizio della Posta per il cambio dei cavalli. I primi comunicavano ai secondi se i passeggeri erano persone facoltose, intuendo ciò dal loro comportamento in albergo. I secondi avuto tale segnalazione, applicavano ai finimenti dei cavalli della carrozza di posta, o della diligenza, una particolare sonagliera; così i briganti venivano avvisati dal suono dei campanelli che meritava assaltare il veicolo e saccheggiare i visitatori. Altro sistema organizzato era quello di aggredire e depredare i viandanti che venivano segnalati di ritorno da una campagna lavorativa all’estero o da zone dove avevano partecipato a lavori stagionali. In questi casi avvenivano anche uccisioni, perché questi lavoratori difendevano rabbiosamente i loro risparmi. Si narra che un truce comportamento dei briganti del Malpasso era quello di far sparire i cadaveri delle loro vittime nelle fornaci da calce, che esistevano numerose nella zona. Per ovviare all’aumento dei misfatti venne inviato a Villar Focchiardo uno squadrone di Carabinieri a cavallo, con l’ordine i ripulire il territorio dai banditi che l’infestavano. Finalmente alla banda dei Briganti del Malpasso venne inferto un duro colpo con la cattura del loro capo pro-tempore. Si dice che la cattura avvenne grazie alla collaborazione di un negoziante di Bussoleno. Lo stesso infatti venne assalito e rapinato nella notte al Malpasso, ma riuscì a fuggire. Il giorno successivo all’albergo del Moro di Bussoleno il depredato vide ad un tavolo accanto al suo un truce individuo che stava mangiando e per tagliare il pane stava utilizzando un particolare coltello che il negoziante riconobbe come suo. Senza dare nell’occhio, uscì inosservato dall’albergo ed avvertì i carabinieri. Il capo banda venne immediatamente arrestato per le incontestabili accuse del negoziante, ma tuttavia non poté essere condotto in carcere perché le numerosi persone presenti , esasperate ed inferocite dai continui misfatti di cui direttamente o indirettamente erano state vittime, riuscirono a sottrarlo alla forza pubblica linciandolo e trucidandolo.
Si dice che la mano destra del brigante, quella che feriva ed assassinava con estrema facilità, venne amputata e lasciata, in segno di sommaria giustizia, per parecchi giorni appesa ad un ramo di un gelso del Malpasso. Era il capo indiscusso della banda ed era soprannominato “Lou Ferou”, forse dal suo cognome “Fererro”, oppure per la sua spietata “ferocia”.
Per un po’ di tempo tali misfatti, che erano già alquanto diminuiti con l’entrata in funzione della ferrovia Torino-Susa nel 1854 e la conseguente soppressione del servizio delle diligenze, scomparvero quasi del tutto. Ma poi a poco a poco subentrarono nuovi capi e quindi il famigerato brigantaggio del Malpasso si riorganizzò, con il medesimo ritmo e con le numerosi protezioni di prima.
La fine definitiva avvenne dopo l’unificazione d’Italia, quando il governo organizzo la vasta repressione operata dai militari contro le grosse e numerose bande di briganti del sud e del nord dell’Italia.
Le bòce d’oro
L’uomo, essere sociale per natura, seppe trarre giovamento dalla vita associativa che lo stimolò a progredire, e realizzare la propria personalità, a estrinsecare le sue doti a beneficio di se medesimo e della comunità stessa.
Il monachesimo ce ne diede un esempio classico. Nei monasteri ogni attività era ben disciplinata; i monaci, guidati da regole sagge, istruiti nelle più variate discipline, godettero, attraverso i secoli, sia pur tra alterne vicende, di una sicurezza fiduciosa, di una serena tranquillità, di un certo benessere.
Ma proprio questo benessere fu spesso causa di grossolani malintesi, di invidia mal contenuta, a volte anche di odio. Il popolino relegato dai feudatari, per un egoismo ignobile, ad una emarginazione vergognosa, diede allora sfogo alla propria fantasia e immaginò rocche e castelli, chiese e conventi custodi di occulti poteri e di mirabolanti tesori inesistenti.
Fiorirono storie fantasiose e leggende appassionate,soprattutto nei confronti dei monasteri dai quali il popolo aveva meno da temere. Storie e leggende nelle quali si finì per credere e a tal punto che non pochi si misero alla ricerca delle individuate chimere.
Anche i Frati di Montebenedetto e Banda furono invidiati, temuti, osteggiati. La loro storia, intessuta di studio, di lavoro e di preghiera, si intreccia infatti con le vicende dell’umano vivere e convivere delle comunità di Villar Focchiardo e di San Giorio, i due paesi confinanti sui quali si estendevano le proprietà dei monaci. Attorno ai Frati di Banda e Montebenedetto fiorirono leggende che la tradizione popolare ci ha tramandato con dovizia di particolari curiosi.
Si racconta che nel tempo dei certosini di Banda vi era un cuoco che sapeva svolgere molto bene il suo mestiere e che approfittava di ogni occasione per fare degli ottimi piatti per i propri confratelli. Con poche cose approntava certe leccornie da ingolosire anche il Re di Francia. Una delle sue più belle trovate era stata “la bòcia” una leccornia buona per tutte le stagioni. Un giorno dei frati erano saliti a Montebenedetto per dei lavori ed il frate-cuoco li attendeva per mezzogiorno. A causa della copiosa nevicata che durante il cammino aveva colto di sorpresa i monaci essi tardano ad arrivare. Il cuoco che all’ora stabilita aveva preparato la polenta e tagliato il formaggio si trova spiazzato e per il ritardo dei suoi confratelli il pranzo stava diventando freddo. Il frate, senza pensarci su, prende le fette di formaggio e le accartoccia dentro le porzioni di polenta. Ne fa tante belle bocce, lisciandole con le sue mani di artista e le posa sopra la griglia posta sul braciere. I confratelli tardano, si fanno attendere e per non bruciare la polenta, gira e rigira le bocce da tutte parti. Dopo un po’ di tempo sono arrostite, foderate di una crosta che sembra d’oro e che spande un delizioso profumo. Alla buonora arrivano i monaci ed il povero cuoco che aveva sudato sette camice per mantenere la sua polenta può sgridarli e con molto ardore. I frati non avevano mai mangiato una leccornia simile e fanno tanti complimenti al cuciniere che da allora non ha più perso nessuna occasione per approntare “le bòce”.
E’ anche successo che a volte la polenta gli rimaneva più molle del solito e che le bocce cercassero di appiattirsi, di schiacciarsi, ma il frate cuciniere non si spaventa. Ingegnoso com’è trova subito il rimedio: mette le bocce in fila sull’asse del pane e le porta fuori ad asciugare al sole. Gli basta poco. Fuori la polenta si asciuga in fretta ed è più comodo farla arrostire senza che attacchi. Sopra l’asse, tutte in fila sul muretto del portico, gialle e lucenti, le bocce sono proprio invitanti. Ci vuole poco per far venire un certo languorino. Se poi le guardi da lontano sembrano “bocce d’oro” in attesa dei giocatori per iniziare la partita. E tanto che qualche paesano passando da quelle parti, vedendole luccicare credono siano proprio d’oro.
Non solo un montanaro le aveva viste le bocce dei frati e con una certa invidia che gli brulicava dentro lo stomaco, sempre piuttosto vuoto, aggiungendo un pizzico di cattiveria si era messo a raccontare che i frati di Banda giocavano a bocce con delle “bòce d’or”. Una ragazzata bella e buona, ma era bastata. Al paese più di una persona era pronta a giurare di avere visto i monaci di Banda giocare con le bocce d’oro. “Bocce gialle, sicuro ! Ma bocce di polenta, polenta e formaggio grasso !” E’ proprio vero che non tutto ciò che luccica è d’oro!
La storia delle bocce d’oro si è sparsa non a Villar Focchiardo, ma aveva anche attraversato la Dora Riparia ed era arrivata fino a Borgone. Gli scalpellini delle cave non parlavano d’altro e la gente di Chiampano, alla domenica dopo mezzogiorno, salivano sulle rocce per guardare sul pianoro di Banda se i frati giocavano a bocce. La povera gente che non aveva mai visto un pezzo d’oro stentava a credere, ma i più burloni giuravano d’aver visto i frati correre mentre alzavano le bocce per tirare e che le stesse brillavano al sole. Queste credenze si radicavano nell’animo semplice della povera gente che come dei bambini sognava, e nei sogni realizzava tutto quello che non poteva avere.
La storia continua. Si narra infatti che erano in atto i preparativi per una grande guerra. I monaci che sapevano sempre tutto, se ne accorgono in tempo e cominciano così a preparare provviste di ogni genere. Il priore pensa quindi anche di disfarsi delle bocce d’oro ed a nasconderle in un posto sicuro: Montebenedetto. Era un ottobre piovoso e si erano già sentite alcune scosse di terremoto. Il frate priore accartoccia le bocce dentro della stoffa bagnate nella cera calda, le lascia raffreddare e poi le sistema nelle ceste sul basto dell’asino del convento. Fra Giuspino, con obbedienza, prende l’asino e si avvia da Banda alla volta di Montebenedetto, passando lungo la galleria che unisce le due località. Frate Giuspino ed il suo asino sono quasi arrivati a Montebendetto quando improvvisamente la terra si mette a tremare ed un terribile rumore rimbomba all’interno della galleria. La terra le scivola sotto i piedi, la galleria si squarcia, il frate ed il suo asino si trovano appesi ad un faggio. Frate Giuspino si libera da questa situazione ma vede che le bocce cascano a terra in un canale che nel frattempo si era creato. Giuspino cerca di fermarle ma scivola anche lui e si agguanta ad un ramo. Le bocce continuano a rotolare e fra Giuspino molto adirato da tutto quello che è successo, grida forte: “Bocce della malora, andate pure e che il diavolo vi pigli” Da non si sa quale buco esce fuori Bergnif in carne ed ossa, brutto da fare paura e puzzolente da fare venire ilo voltastomaco. Il pomo di Adamo di Giuspino si inciampa nel gozzo e nel frattempo che lui cerca di mandare giù la saliva e la bocca del frate resta lunga e larga come la porta di un forno. Bergnif nel mentre corre dietro alle bocce, le raccoglie una per una e si arrampica per il costone del Cugno e sparisce in un anfratto. Giuspino cerca di respirare e di raccogliere la sua giacca appesa al faggio. Non ha ancora avuto il tempo di allungare la mano che dietro alla collina della Grangia, spunta nuovamente il diavolo. Fra Giuspino ritorna a parlare e dice: “Cosa diavolo vuole questo satanasso ? Scommetto che cerca le bocce ! Che ridere !!!” Il diavolo non poteva sapere che i frati giocavano senza boccino ed al suo posto usavano una boccia di ferro che era restata giù a Banda. Giuspino si infila la giacca e con l’asino cercano di uscire dal canalone. Camminando, camminando arrivano in prossimità di Montebenedetto e si trovano di fronte ad una serie di case diroccate a causa di una catastrofica alluvione. Il convento di Montebenedetto era però rimasto integro. Lasciate le bocce al diavolo i frati continuano a fare le loro cose senza porsi troppi problemi. Ma Bergnif da quel giorno non ha più pace. Portare le bocce all’inferno teme che si fondano; lasciarle dentro gli anfratti ha paura che la gente gliele rubino, essendo venuta a conoscenza di quanto accaduto. Vedendo tutta quella frenesia nella gente, il diavolo per proteggersi dai ladri nasconde le bocce ora su a Cassafrera, ora nelle case di Mustione, poi alla Cima Rossa, nelle paludi delle Sagne e anche a Banda e Montebenedetto.
Anche se la storia delle “bocce d’oro” fosse solo immaginazione e fantasia, sogno di un desiderio mai realizzato, la leggenda si è radicata nella convinzione popolare e appena i frati se ne sono andati da Banda molte persone sono andate a scavare nelle insenature della montagna e nella zona di Montebenedetto e Banda.
Arvàngia dij frà ?
Mascara dël diav ?
Chi lo sa ?
La vrità a l’è che mai gnun a l’hà trovà le bòce, le bòce d’or dij frà.